C’è un equivoco di fondo che si ripresenta puntuale ogni volta che si osa mettere in discussione l’andazzo del capitalismo attuale.
Appena critichi il neoliberismo allo sbando che ci governa, c’è sempre qualcuno pronto a tirare fuori l’etichetta stantia: “Comunista!”. Una scorciatoia pigra, di quelle che evitano di pensare, come se fossimo ancora fermi al ’68 o alla Guerra Fredda.
La verità è che essere contro questo capitalismo, quello dei fondi speculativi che decidono chi sopravvive e chi soccombe, quello dei BlackRock, dei Vanguard, degli State Street e via dicendo (il nome cambia, la logica predatoria no), non significa affatto volere l’abolizione dell’impresa o il ritorno a un’economia pianificata di Stato. Al contrario.
Vuol dire difendere la possibilità per tutti di fare impresa. Vuol dire proteggere il tessuto produttivo fatto di piccoli e medi imprenditori, artigiani, startupper, cooperative, liberi professionisti, che oggi non giocano più ad armi pari ma dentro un’arena truccata, dove le regole le scrive chi è già gigante e ha in mano le leve fiscali, finanziarie e politiche.
Il fraintendimento sul lavoro
Un altro mito estremamente dannoso che si aggira attualmente nelle pagine social, soprattutto tra i giovani della generazione Z, è quello che svaluta il lavoro in sé. Non sto parlando delle condizioni di sfruttamento, del precariato, degli stage non pagati, che giustamente vanno combattuti.
Sto parlando di quella postura esistenziale, sempre più diffusa, che vede il lavoro come inutile, come un’imposizione priva di senso, come qualcosa da combattere e debellare.
Ritengo tutto questo una stupidaggine colossale.
Da psicologo non posso fare a meno di vedere la dimensione del fare, quale il lavoro è, una delle tappe fondamentali dello sviluppo dell’identità. La capacità di “essere generativi”: creare, contribuire, produrre qualcosa che vada oltre il proprio ombelico che gli altri sono disposti ad “apprezzare” in senso psicologico ed economico, va a costruire la nostra identità.
È quella dimensione che sta al centro del bisogno di autorealizzazione, come dimensione essenziale per dare forma ai propri valori, talenti e costruire capacità.
Il lavoro non è e non può essere solo mezzo di reddito: è anche contesto di status, appartenenza, senso e significato.
Non esiste identità senza lavoro. Non esiste benessere psicosociale senza una qualche forma di attività produttiva, che ti faccia sentire capace di incidere, di trasformare il mondo esterno e non solo subirlo passivamente.
Per questo considero profondamente miope la fuga dall’idea di lavoro. Il problema non è il lavoro: è questo mercato drogato, dove siamo arrivati a quella dimensione del fare fine a sé stessa, senza garanzie e con la sensazione di essere un codice a barre.
Difendere il lavoro e l’impresa, non i colossi
Sono contro questo capitalismo proprio perché credo che il lavoro e l’impresa vadano salvati.
Perché penso che l’autodeterminazione e l’autorealizzazione di ognuno debbano passare dalla possibilità di costruirsi uno spazio proprio, senza dover chiedere permesso alle logiche cannibali dei colossi finanziari.
Oggi BlackRock, Vanguard, State Street e questo enorme tumore finanziario globale, sta colonizzando ogni settore con una logica da monopolio, travestita da libero mercato.
Sono i nuovi padroni universali, gestiscono i capitali dei governi, decidono quali aziende vivono, quali vengono divorate, quali Paesi possono respirare e quali devono strozzarsi nel debito.
Essere contro di loro non vuol dire essere contro il capitalismo. Vuol dire rifiutare l’idea di un capitalismo che non lascia più spazi, che uccide il pluralismo imprenditoriale, che riduce tutti noi a ingranaggi intercambiabili di tre-quattro fondi di investimento globali.
La mia posizione è semplice
Chi pensa che criticare il neoliberismo equivalga a invocare il comunismo non ha capito molto.
E chi, dall’altra parte, liquida il lavoro come un’inutile catena da spezzare, sbaglia completamente prospettiva.
Io sto esattamente dove voglio stare e la mia posizione è cristallina:
- Vorrei salvare l’impresa, quella vera, quella che innova e crea valore invece di fagocitare tutto ciò che tocca;
- Vorrei salvare il lavoro, come dimensione identitaria e non solo salariale, come spazio di crescita personale e non di mera sopravvivenza;
- Vorrei difendere il diritto di ogni individuo a realizzarsi senza dover accettare le regole di un’oligarchia globale che ci vede solo come numeri nei suoi portafogli;
- Vorrei difendere il diritto di ogni individuo a vivere una buona vita e a preservare la sua salute fisica e mentale, a godersi il passaggio terreno in modo libero e liberale.
E per chi la vede come una crociata ideologica ho delle brutte notizie.
È solo un atto di igiene politica, psicologica, sociale ed economica.
È la difesa del buon senso contro la follia di un sistema che ha perso ogni misura umana.
Per me, essere contro questo capitalismo significa difendere la libertà, la libertà di fare impresa, la libertà di lavorare, la libertà di autodeterminarsi e di non rimanere strozzati da chi ha il potere di decidere, ma anzi combatterlo strenuamente.
E se questo vi sembra comunismo, beh, forse dovreste rivedere i vostri manuali di storia.
Può essere al limite un socialismo liberale, che è quello di cui avremmo disperato bisogno.
Ne parlerò molto presto e in modo iper dettagliato e scientifico nel mio libro in uscita imminente:
“Guarire dal capitalismo”, dove vi dico tutto quello che so e che ho imparato su come proteggere autodeterminazione e salute mentale disimparando l’illusione neoliberista.
Stiamo sempre svegli, curiosi, inafferrabili.
A presto!
Davide
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Dott. Davide Etzi
Psicologo, Psicoeconomista, Executive Coach e Terapeuta sistemico-strategico [www.davideetzi.it]
Consulente in assessment e psicodiagnostica per le Persone, i Gruppi e le Organizzazioni [www.humanev.com]