Posso fare coaching anche se il mio coachee ha un disturbo di personalità?
Immagina questa scena:
Un coach si trova di fronte a una persona che ha obiettivi, desideri di crescita, voglia di cambiamento. Ma c’è qualcosa che non torna.
Pattern rigidi. Pensieri dicotomici. Rabbia non regolata. Collera improvvisa. Vittimismo cronico. Relazioni caotiche. Un senso diffuso di instabilità.
C’è un disturbo della personalità? Probabile.
Ma nel mondo del coaching, al di là del – riconoscere quando è il caso di fare l’invio – non si dice. Si edulcora. Si bypassa. Spesso viene chiamato “autoboicottaggio” o “mancanza di mindset”. Spesso è lo stesso coachee che non desidera invii o altri tipi di interventi.
Ma se lavori nelle professioni strategiche d’aiuto e vuoi davvero aiutare le persone a sbloccarsi, devi guardare l’elefante negli occhi.
C’è una domanda che in pochi hanno il coraggio di farsi nel mondo del coaching. Un dubbio che serpeggia nei corridoi (reali o digitali) dei percorsi formativi, nei gruppi online, nei DM di Instagram, nei gruppi di professionisti.
Una domanda scomoda, ma fondamentale: “Posso fare coaching anche se la persona davanti a me mostra segnali evidenti di un disturbo di personalità?“
Ecco, questo è l’elefante nella stanza. Il problema che nessuno nomina, ma che aleggia costantemente in un’industria sempre più popolata da corsi weekend, frasi motivazionali e false promesse di sblocco.
Forse è il momento di guardare dentro, anche perchè non è un mistero che siamo nel pieno di una crisi sistemica della salute mentale (fonti a fine articolo)
Prima di tutto: cos’è un disturbo di personalità?
I disturbi di personalità non sono etichette o stereotipi da appiccicare su persone difficili. Sono configurazioni stabili, pervasive e disfunzionali del modo in cui una persona percepisce sé stessa, gli altri e il mondo.
In pratica: modi di pensare, sentire e comportarsi che causano sofferenza profonda, rigidità relazionale e difficoltà a costruire una vita pienamente funzionale.
Parliamo di pattern come:
- relazioni instabili e caotiche (borderline),
- eccessiva diffidenza e sospetto (paranoide),
- bisogno costante di ammirazione e mancanza di empatia (narcisista),
- isolamento cronico e paura del giudizio (evitante),
- senso di vuoto, insicurezza cronica, auto-svalutazione.
Questi non sono semplici “blocchi emotivi” o “mancanza di mindset”. Sono tratti strutturali del Sé che richiedono un intervento terapeutico specializzato. E soprattutto, non possono essere risolti con 6 sessioni e un bel piano d’azione scritto su un Moleskine.
Coaching e psicoterapia: due approcci diversi, due mestieri diversi
Qui sta il punto centrale.
Il coaching nasce per accompagnare persone sane a realizzare obiettivi, migliorare performance, accelerare la crescita personale e professionale.
La psicoterapia, invece, lavora nel campo della sofferenza psichica, affronta traumi, blocchi profondi, strutture disfunzionali della personalità.
Scava. Rielabora. Cura.
Il coaching lavora sulla superficie operativa. La psicoterapia lavora sulla profondità identitaria.
Confondere i due piani non è solo un errore tecnico. È un rischio clinico.
Facciamo chiarezza.
Il coaching lavora su obiettivi. È orientato al futuro, alla performance, all’attivazione di risorse.
La psicoterapia lavora su pattern profondi. Si muove tra conscio e inconscio, rielabora il passato, affronta le ferite emotive e, spoiler: va anche verso il futuro e può lavorare per costruire un futuro desiderato.
Cosa succede se un coachee porta un problema che non è solo evolutivo ma anche clinico?
Succede che il coach entra in una zona grigia pericolosa e succede spesso che il coach non è in grado di riconoscere né l’ambito clinico, né il fatto che si possa essere già in area clinica.
Conseguenze (empiriche – che vuol dire più volte testate in realtà – )
- Rischia di banalizzare una sofferenza psichica.
- Potrebbe rinforzare meccanismi disfunzionali.
- Non ha strumenti per gestire le crisi emotive profonde.
Eppure, accade tutti i giorni nel florido mercato della crescita personale.
Il coaching da “fast food” e i pericoli della deregolamentazione
In Italia (e non solo), chiunque può definirsi coach. Non esiste un albo, non ci sono controlli reali, e spesso basta un corso online da 10 ore per iniziare a vendersi come “life changer”. Fatto salvo il lavoro di associazioni serie di professionisti, dal punto di vista legislativo siamo totalmente privi di tutela, sia per gli utenti, che per i professionisti.
Il risultato?
- Persone in reale sofferenza affidate a professionisti non formati per riconoscere segnali clinici;
- Disturbi profondi trattati come “blocchi energetici” o “autosabotaggi”;
- Situazioni delicate che vengono banalizzate o rinforzate da tecniche inadatte.
Il mondo del coaching è pieno di buone intenzioni. Ma le buone intenzioni senza competenza fanno danni considerevoli nella vita delle persone.
Coaching e disturbi di personalità: cosa può andare storto?
Immagina di lavorare con un coachee borderline. All’inizio ti idealizza: “Sei la persona che cambierà la mia vita!” Dopo una sessione difficile, ti svaluta: “Non capisci niente, ho buttato i miei soldi!”
Oppure un coachee narcisista che rifiuta ogni feedback, si difende, proietta. O una persona con tratti evitanti che non riesce ad agire perché terrorizzata dal giudizio.
In questi casi, il coaching può diventare una miccia che accende la fragilità psichica, invece di contenerla.
Perché lavora su azioni, decisioni, responsabilità. Ma se il sistema interno della persona è disorganizzato, chiedere azione può scatenare panico, regressione o crisi.
E allora: coaching sì o no?
La risposta non è no. La risposta è: dipende da come, da chi e da cosa c’è in gioco.
Il coaching può affiancare, ma non sostituire la terapia.
Sì, se:
- il coachee è già in terapia e ha una diagnosi chiara;
- il coach è formato a riconoscere segnali clinici e sa quando fermarsi;
- c’è un accordo trasparente sui limiti del lavoro e sul ruolo del coach;
No, se:
- il coachee porta sofferenza profonda non elaborata;
- c’è instabilità emotiva, disregolazione, impulsività;
- il coach non ha strumenti per leggere ciò che sta emergendo.
Il coaching, in questi casi, può diventare un rischio, oltre che un’illusione.
Verso un coaching integrato: un nuovo paradigma
Il futuro del coaching non è fatto di slogan motivazionali, ma di competenza integrata.
È fatto di una collaborazione costruttiva tra coaching, psicoterapia, neuroscienze, sociologia.
Un ecosistema in cui i professionisti non giocano a fare gli psicologi, ma imparano a riconoscere i confini, a rispettarli e – dove possibile – a collaborare per l’evoluzione delle persone.
Un coaching che evolve insieme all’umano, non che lo semplifica in formule preconfezionate.
Linee guida operative per coach responsabili
Se sei un coach (o aspiri a esserlo), ecco cosa puoi iniziare a fare da subito:
- Formati seriamente. Non solo in coaching, ma anche in psicologia, sociologia e neuroscienze.
- Impara a riconoscere segnali clinici. Non per fare diagnosi, ma per sapere quando referenziare e inviare il coachee. Se il coachee non vuole essere inviato, non renderti complice, chiudi il percorso.
- Collabora con psicoterapeuti. Smetti di pensare in modo competitivo. Lavora in rete.
- Fissa confini chiari. Fallo prima di iniziare il percorso. Fallo anche con te stesso.
- Non minimizzare la sofferenza. Dietro un “blocco” può esserci un trauma. Riconoscilo.
Siamo pronti ad accettare che non tutto è “coachabile”?
Viviamo in un’epoca in cui si vuole “sbloccare” tutto. In cui il disagio viene tradotto in linguaggio da post motivazionale. Ma non tutto può essere risolto con la volontà.
A volte serve un lavoro più profondo. A volte serve terapia. A volte serve solo il tempo.
Se sei una persona in cammino, non vergognarti se il coaching non basta. Forse il primo vero passo è proprio riconoscere che non si tratta di motivazione, ma di sofferenza.
E in quel caso, cercare aiuto vero è il più grande atto di evoluzione.
Il nostro tempo ha bisogno di professionisti etici, preparati, umili. Di persone che non si accontentano delle frasi fatte.
Di un ecosistema dove la crescita non è una performance, ma un processo.
Questo tema deve far rumore. Perché riguarda il futuro del nostro modo di aiutare.
E riguarda soprattutto la dignità e la verità di chi cerca aiuto e di chi lo offre professionalmente.
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Se vuoi dibattere, facciamolo nei commenti.
E se stai cercando un percorso e un supporto per un momento di difficoltà, una sfida o un cambiamento desiderato ti invito a richiedere una prima consulenza.
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Dott. Davide Etzi
Psicologo, Psicoeconomista, Executive Coach e Terapeuta sistemico-strategico [www.davideetzi.it]
Consulente in assessment e psicodiagnostica per le Persone, i Gruppi e le Organizzazioni [www.humanev.com]