Stanchezza da lavoro o crisi di senso collettiva?
Sempre più persone, anche tra chi ha molto successo, arrivano in terapia o in coaching con una frase che risuona come un allarme: “Non ce la faccio più”.
Ma non è solo fatica: è una crisi culturale ed esistenziale del lavoro.
In questa articolo racconterò cosa sto osservando nel mio studio, nei dati e nelle organizzazioni.Se anche tu senti che qualcosa non torna, continua a leggere.
1. Cosa sta succedendo nel rapporto tra lavoro e persona
Maggio è il mese delle fioriture, dei ponti e delle ripartenze. Ma si apre anche con la Festa dei Lavoratori, una ricorrenza simbolica che ci invita a riflettere su diritti, fatica, dignità. E su ciò che, per ciascuno di noi, dà senso all’impegno quotidiano.
È da tempo che sento il desiderio di scrivere sul lavoro. Non solo perché è una dimensione che ha attraversato profondamente il mio percorso, sia formativo che professionale, ma soprattutto perché, nel mio studio, osservo con crescente frequenza un fenomeno che non posso più ignorare.
I setting della psicoterapia e del coaching sono come sismografi sociali: registrano in anticipo le scosse che attraversano la collettività. Sembrano luoghi intimi, ma ciò che accade lì dentro spesso anticipa ciò che accadrà fuori.
Mai, da quando svolgo questa professione, ho incontrato così tante persone – in terapia, in coaching, in consulenza – che mi dicono:
“Non ce la faccio più.”
“Vorrei smettere di lavorare.”
“Non trovo più alcun senso, né economico, né sociale, né esistenziale, in quello che faccio.”
E così mi ritrovo a farmi una domanda, con il cuore pesante ma anche con un sentimento di speranza, strano e paradossale:
“Ma davvero nessuno ha più voglia di lavorare?”
La sento pronunciare da imprenditori preoccupati, da manager frustrati, da genitori confusi davanti alle scelte dei figli.
È una domanda che nasconde altre domande, più profonde:
“Cosa sta succedendo alla nostra società?”,
“Come siamo arrivati a questo punto?“,
“Perché ciò che ha funzionato per le generazioni precedenti sembra ora respinto da tanti?”
Non sto parlando di svogliatezza o scarsa etica del lavoro, tuttaltro!
Le persone hanno un enorme voglia di fare ed esprimersi, di creare e mettere in campo il loro potenziale.
Sto osservando un fenomeno che ha preso forma in modo concreto e nelle conversazioni in studio per tutto il 2024 e nei primi mesi del 2025 l’ho visto pian piano normalizzarsi e mettermi davanti a una verità scomoda ma innegabile: qualcosa si è rotto nel rapporto tra le persone e il lavoro.
O meglio, qualcosa è finalmente emerso dopo anni (anzi, decenni) di adattamento forzato a un sistema che semplicemente non funziona più per milioni di persone.
2. Non è pigrizia, è esaurimento di senso
Nel primo trimestre del 2025, un numero crescente di persone – particolarmente tra gli under 35, ma anche tra molti over 40 e professionisti senior – ha iniziato ad esprimere una stanchezza profonda, quasi esistenziale, verso il lavoro.
Attenzione: non verso il lavoro in sé, ma verso il modo in cui il lavoro è pensato, organizzato e imposto nella nostra società.
I segnali sono ormai impossibili da ignorare: giovani brillanti che rifiutano offerte economicamente vantaggiose perché “non sentono senso” in ciò che viene proposto; il “quiet quitting” che si è trasformato dal disimpegno silenzioso all’uscita consapevole e dichiarata dal mercato del lavoro tradizionale; imprenditori e dirigenti che confessano di aver “costruito una macchina che ora mi divora“, riconoscendo di essere vittime del sistema che hanno contribuito a creare; dipendenti pubblici e privati che cercano attivamente vie d’uscita, con frasi come “non voglio più vivere così” che risuonano con frequenza preoccupante nelle nostre sessioni di coaching.
La scorsa settimana, durante un team coaching aziendale, una partecipante di 42 anni mi ha preso da parte durante una pausa. Con gli occhi lucidi condivide queste esatte parole: “Davide, sto pensando seriamente di lasciare tutto. Ho raggiunto ogni obiettivo che mi ero prefissata, guadagno bene, ho responsabilità, eppure ogni mattina quando suona la sveglia sento un peso sul petto che non riesco a spiegarmi. Mi sento in gabbia, in una gabbia dorata che io stessa ho contribuito a costruire.”
Ecco questo è davvero il classico esempio che risuona in continuazione nelle sessione, l’ho ascoltato ormai centinaia di volte e sospetto che anche tu, che stai leggendo, possa riconoscere in te o in qualcuno vicino a te, sensazioni analoghe.
Questa ondata che stiamo osservando non è pigrizia o nichilismo e nemmeno rifiuto del sacrificio o della fatica. È un rigetto sistemico verso un paradigma economico e culturale che ha letteralmente saccheggiato le energie psicologiche, relazionali ed emotive delle persone.
Il lavoro, nella sua forma attuale, viene sempre più percepito come un meccanismo di sfruttamento emotivo abilmente travestito da opportunità di crescita personale.
Ed è qui che diventa fondamentale una lettura psicologica e sociologica del fenomeno. Chi oggi “non vuole più lavorare” non è semplicemente demotivato. È esaurito nella ricerca di senso.
Lo chiamiamo burnout, ma è molto più profondo: è un esaurimento di senso.
Le neuroscienze e la clinica contemporanea parlano chiaro: la mancanza di scopo, la disconnessione emotiva e l’impossibilità di vedere un impatto positivo del proprio contributo generano ciò che tecnicamente possiamo definire come una “iperattività dopaminica disfunzionale”.
In termini più accessibili: il cervello rincorre costantemente stimoli che offrono una gratificazione immediata ma superficiale (email, task, riunioni, like sui social), senza però costruire un’identità solida o un benessere autentico.
Il lavoro è diventato, per una percentuale crescente di persone, un luogo in cui si è costretti a fingere di essere “ok” mentre ci si sgretola dentro. E questo meccanismo, protratto nel tempo, diventa semplicemente intollerabile per la psiche umana.
Viviamo ancora, nel 2025, all’interno di un frame mentale tipico del dopoguerra industriale, in cui produttività equivale a valore, occupazione a dignità, e fatica a moralità. Ma oggi questa equazione è saltata.
O meglio: si è svelata per ciò che realmente è – una costruzione storica che è stata funzionale in un determinato periodo, ma che risulta profondamente disfunzionale nel presente.
Le nuove generazioni (e non solo loro) non stanno rifiutando il lavoro in sé. Stanno rifiutando il lavoro senza etica, il lavoro senza impatto visibile, il lavoro che divora ogni spazio di tempo umano.
Rifiutano il cinismo delle organizzazioni che parlano di “purpose” e poi trattano i lavoratori come come ingranaggi sostituibili di una macchina che punta solo al profitto.
Rifiutano la logica del “lavora duro oggi, forse vivrai domani” in un’epoca in cui il futuro stesso appare incerto e fragile.
Prova a pensare a come ti senti alla fine di una giornata piena di videoconferenze. Quella stanchezza speciale, diversa dalla fatica fisica, è ciò che i neuroscienziati chiamano “affaticamento decisionale” (decision fatigue). Il nostro cervello non è evolutivamente progettato per il tipo di attenzione prolungata e frammentata che il lavoro moderno richiede.
I dati che sto raccogliendo nel mio lavoro quotidiano, attraverso i tracking report delle psicoterapie e dei percorsi di coaching, trovano conferma nelle statistiche più ampie.
In Italia, siamo all’ultimo posto in Europa per soddisfazione lavorativa (vedi: https://europeanworkforcestudy.com): solo il 43% dei dipendenti considera la propria organizzazione un buon posto di lavoro, contro una media europea del 59%. Non è solo una percezione soggettiva: gli stipendi italiani sono sostanzialmente fermi dall’inizio degli anni ’90, mentre in Francia sono cresciuti del 25% e in Germania del 20%.
Ma la questione economica è solo la punta dell’iceberg. Ciò che sto osservando nelle mie sessioni di coaching e psicoterapia è una profonda crisi identitaria.
Le persone si chiedono:
“Chi sono io al di là del mio lavoro?”,
“Che valore ho come essere umano se la mia professione venisse a mancare?”.
Queste domande esistenziali sono rimaste sommerse per decenni, ma ora emergono con forza, amplificando un senso di vulnerabilità che trova terreno fertile nell’instabilità globale.
In termini neuropsicologici, stiamo assistendo a un massiccio esaurimento delle “risorse esecutive” – quelle funzioni cerebrali responsabili dell’autocontrollo, della pianificazione, del decision-making.
Il cervello umano può sostenere un certo livello di stress e incertezza, ma quando questi diventano cronici (come nella situazione attuale), si innesca un meccanismo protettivo: il disimpegno.
Questo disimpegno non è una scelta consapevole, ma una risposta biologica di protezione. Il cervello ci sta dicendo: “Non posso continuare così, qualcosa deve cambiare.”
C’è un dato che inquieta profondamente: molte persone restano intrappolate in lavori tossici esclusivamente per paura, non per vocazione o soddisfazione.
La sicurezza economica è diventata la nuova prigione esistenziale.
Il nostro cervello non riesce più a sostenere questo compromesso tra salario e sofferenza. La dopamina generata dalla gratificazione economica non è più sufficiente a compensare il cortisolo (l’ormone dello stress) che viene prodotto quotidianamente in ambienti di lavoro tossici.
Ed ecco il punto cruciale: la sicurezza economica non è più sufficiente a garantire motivazione duratura.
Le persone stanno cominciando a scegliere il benessere mentale come priorità assoluta, anche a costo di sacrificare status sociale, entrate economiche o prospettive di “carriera” tradizionale.
Durante un recente gruppo di lavoro, ho posto questa domanda: “Tra dieci anni, come immaginate la vostra vita professionale?“
La reazione è stata illuminante: sguardi confusi, risate nervose, qualche scrollata di spalle. Una partecipante, ha risposto con una domanda che ha colto il cuore del problema: “Ma come possiamo immaginare il nostro futuro professionale quando non sappiamo nemmeno se tra dieci anni questo pianeta sarà ancora abitabile?”
Non è catastrofismo. È la reazione psicologica naturale a un mondo che appare sempre più frammentato e imprevedibile. Secondo il Global Peace Index, oggi sono attivi 56 conflitti armati nel mondo – il numero più alto dalla Seconda Guerra Mondiale – che coinvolgono direttamente o indirettamente 92 paesi (https://www.visionofhumanity.org).
Come possiamo investire emotivamente nel nostro percorso professionale quando l’orizzonte mondiale appare così turbolento?
Nel mio lavoro, sto osservando un fenomeno che chiamo “contrazione dell’orizzonte temporale“. Le persone, specialmente i più giovani, hanno smesso di pianificare a lungo termine. Il futuro appare troppo incerto, troppo minaccioso.
Questa contrazione è una risposta adattiva: in un ambiente percepito come instabile, la strategia evolutivamente più sensata è concentrarsi sul presente, sul benessere immediato.
Le guerre in corso, le tensioni geopolitiche, le crisi climatiche non sono solo notizie sui giornali: sono forze che plasmano profondamente la nostra psiche collettiva, modificando il modo in cui ci relazioniamo al lavoro e al futuro.
Gli eventi traumatici globali producono ciò che in psicologia chiamiamo “trauma vicario” – un trauma psicologico che si sviluppa non per esperienza diretta ma per empatia ed esposizione continua a notizie traumatiche.
In questo contesto di fragilità globale, la domanda sul senso del lavoro diventa ancora più urgente: che valore ha sacrificare il proprio benessere presente per costruire carriere in un mondo che sembra sull’orlo del collasso? Non è nichilistico porsi questa domanda. È necessario.
3. Perchè sta succedendo adesso: tre fattori chiave
Ci sono almeno tre fattori che hanno creato le condizioni per questa trasformazione.
- Innanzitutto, l’onda lunga post-pandemica: dopo la pandemia, molte persone avevano già iniziato a interrogarsi profondamente sul senso delle proprie scelte professionali che è potenziato da questa profonda instabilità geopolitica.
- Poi l’accelerazione digitale: l’intensificazione del lavoro mediato dalla tecnologia ha ridotto drasticamente il contatto umano autentico, elemento fondamentale per il benessere.
- Infine, l’impatto dell’AI: l’intelligenza artificiale ha reso visibile la sostituibilità di molti ruoli, mettendo in discussione l’identità professionale di intere categorie.
“Non ho paura che l’IA mi rubi il lavoro. Ho paura che metta in evidenza quanto poco senso avesse il mio lavoro fin dall’inizio.”
Questa frase, mi è stata detta da un paziente qualche sessione fa e racchiude perfettamente il paradosso che stiamo vivendo.
L’intelligenza artificiale non è solo una rivoluzione tecnologica: è un potente catalizzatore di una crisi esistenziale.
Ciò che mi colpisce, parlando con le persone, non è tanto la paura di perdere il lavoro, quanto la crisi di identità che l’IA sta provocando. Quando un algoritmo può scrivere un’email commerciale, analizzare un report finanziario o diagnosticare una malattia meglio di noi, cosa rimane della nostra unicità professionale? Cosa ci definisce come esseri umani al lavoro?
Paradossalmente, sono proprio coloro che hanno investito maggiormente nell’istruzione a trovarsi più esposti. Un’altra crepa nel contratto sociale implicito che abbiamo ereditato: “studia, fai sacrifici, avrai sicurezza“.
Questa promessa appare oggi sempre più fragile. Eppure, io esorto sempre alla fiducia, e vedo anche un’opportunità in questa crisi. L’IA, liberandoci da compiti che possono essere automatizzati, ci costringe a riscoprire e valorizzare ciò che ci rende autenticamente umani: creatività, empatia, connessione, cura, pensiero critico.
Ci spinge a ripensare il lavoro non come mera produzione, ma come espressione della nostra umanità.
Ma il 2025 è l’anno in cui tutti questi fattori sono arrivati a un punto di saturazione: troppa pressione legata alla performance, zero riconoscimento autentico del valore umano; troppo storytelling aziendale sulla “cultura”, zero coerenza nei valori realmente vissuti; troppa offerta di “benefit” superficiali, zero spazio per l’espressione autentica di sé. E allora la mente dice basta. Il corpo dice basta. L’identità profonda dice: “voglio vivere, non solo lavorare“.
4. Cosa possiamo fare: proposte di direzione
Il pessimismo non serve. Siamo in una fase di transizione.
Dico spesso: “È solo una fase di transizione, che non sappiamo se e quando finisce, tanto vale starci bene, anzi, benissimo, perchè potrebbe essere una transizione continua!”.
Davanti a questa crisi, sarebbe facile cadere nel pessimismo o nel cinismo. Ma come sai, se mi segui da tempo, non è questo il mio approccio.
Credo profondamente che ogni crisi contenga i semi di una trasformazione potenzialmente evolutiva.
Dobbiamo quindi smettere tutti di lavorare?
No, non è questa la soluzione. Ma abbiamo urgente bisogno di un’altra idea di lavoro.
Non credo sia un rifiuto del lavoro in sé, ma una sua profonda rifondazione psicologica, culturale e organizzativa.
La vera domanda non è “perché nessuno vuole più lavorare?”, ma “perché nessuno vuole più lavorare così?“
Credo invece che ci siano delle direzioni concrete per il cambiamento che dovremmo esplorare come società e sul piano delle organizzazioni per cui lavoriamo e come individui.
Dal punto di vista sistemico – sociale:
- La prima è ritrovare il senso. Ogni persona ed ogni sistema di persone ha un bisogno fondamentale di sentire che il proprio contributo ha un valore reale, che va oltre la semplice esecuzione di compiti. Questo significa ridefinire il “perché” del proprio lavoro, connettendolo a valori autentici; allinearsi con organizzazioni che dimostrano coerenza etica; intraprendere percorsi di coaching per scoprire i propri veri driver interni, non quelli imposti dall’esterno o dalle aspettative sociali o tanto meno dalla necessità di aumentare a dismisura i profitti di un oligarca.
- La seconda direzione è reinventare il modo. Lavorare non può più essere sinonimo di rinuncia alla vita, stress cronico e alienazione. Sono necessari modelli ibridi reali (non ibridismo di facciata che nasconde vecchie logiche di controllo); orari realmente sostenibili che rispettino i ritmi biologici e psicologici di ciascuno; valorizzazione delle differenze neurodivergenti e dei tempi psicologici personali; spazi di autonomia decisionale autentica che permettano alle persone di esprimere la propria creatività e il proprio stile unico, abbassamento delle gerarchia e organizzazioni per centri di competenza e potenziale.
- La terza direzione è rieducare l’economia. Se mi leggi da tempo saprai che dico spesso che: “L’economia ha tradito se stessa”. Ecco cosa penso nel dettaglio e riguardo al lavoro e all’economia manageriale: le aziende, le istituzioni, i manager devono accettare che la produttività non è il fine ultimo, ma una conseguenza di un ambiente sano e sostenibile. Serve una nuova cultura organizzativa in cui si misuri l’energia mentale disponibile, non solo le ore lavorate; si premi la creatività e l’innovazione, non la disponibilità 24/7; si normalizzi la fragilità e la fallacia umana, così come l’economia comportamentale ha iniziato a fare e solo di recente, e si valorizzi il benessere come condizione essenziale per la performance.
Questo apparente paradosso si spiega facilmente: quando le persone lavorano in un ambiente che rispetta la loro umanità, che valorizza i loro talenti unici e che dà spazio alla loro creatività, naturalmente danno il meglio di sé.
Il valore, che sia economico o sociale, non si distribuisce, ma si innesca. Accade quando liberi le persone, le equipaggi di senso e strumenti e le fai agire come enzimi generativi dentro il sistema.
La produttività diventa una conseguenza del benessere, non la sua causa.
Le aziende, paradossalmente, dovrebbero puntare sull’autodeterminazione degli individui, in particolare, sui tre fattori determinanti per il benessere lavorativo contemporaneo: l’autonomia decisionale (la possibilità di decidere come e quando svolgere le proprie mansioni); il senso di padronanza (la percezione di essere competenti e di poter crescere professionalmente); e il purpose alignment (l’allineamento tra i valori individuali e quelli dell’organizzazione).
Quando questi tre fattori sono presenti, si innesca un circolo virtuoso che porta a livelli di engagement, creatività e produttività notevolmente superiori alla media.
Questo ci porta a ribaltare completamente il paradigma tradizionale: non dobbiamo più chiederci come rendere le persone più produttive, ma come creare le condizioni affinché le persone possano esprimere il loro pieno potenziale. E quando ciò accade, la produttività segue naturalmente.
Un altro aspetto fondamentale che dovremmo esplorare al meglio riguarda il rapporto tra tempo, produttività e benessere. La concezione lineare del tempo lavorativo (8 ore al giorno, 5 giorni alla settimana, 47 settimane all’anno) è una costruzione sociale che non rispecchia i naturali ritmi biologici e psicologici dell’essere umano.
Il cervello umano non è progettato per mantenere alti livelli di concentrazione per 8 ore consecutive. Funziona piuttosto secondo cicli di intensa attività seguiti da periodi di recupero.
Dal punto di vista individuale quello che dobbiamo iniziare a fare lo trovi nelle righe seguenti:
Se leggendo questa newsletter, hai sentito una risonanza profonda, probabilmente stai vivendo o hai vissuto sulla tua pelle questo paradosso, voglio dirti che la tua inquietudine è un segnale prezioso che ti sta indicando una direzione di cambiamento necessaria. Non ignorarla, ma usala come bussola per orientare le tue scelte future.
Mi colpisce quanto spesso, negli incontri individuali, vedo persone che si sentono in colpa per il proprio disagio lavorativo. “Dovrei essere grato di avere un lavoro“, “Ci sono persone che stanno molto peggio“, “Sono fortunato rispetto a tanti altri“.
Questo senso di colpa è comprensibile, ma non è utile. Il disagio è un messaggio importante della tua psiche. Merita di essere ascoltato, non soppresso.
Ecco alcuni passi concreti che puoi compiere.
- Prima di tutto, fai un “audit di senso” del tuo lavoro attuale, chiedendoti quali aspetti risuonano con i tuoi valori e quali invece creano profonda dissonanza, separando i segnali individuali, creati e desiderati da te, da quelli sistemici, tipici di questa deriva neoliberista.
- Poi, inizia conversazioni autentiche con colleghi, responsabili o collaboratori – il cambiamento parte dal dialogo sincero e dalla condivisione delle proprie esperienze.
- Agisci sulla dissonanza dei segnali individuali, ti verrà poi spontaneo capire quelli sistemici e di conseguenza contenerli, limitarli, combatterli.
Abbiamo bisogno di maggiore consapevolezza collettiva e imparare a riconoscere i segnali prima che diventino burnout, aiuta paradossalmente anche il contesto sociale.
Non credo stia morendo la voglia di lavorare, credo tuttavia che si stia spegnendo il motore arrugginito di un’epoca intera. Quella del lavoro come identità, come dovere, come sacrificio da esibire, quel modello di lavoro subordinato, come subordinazione valoriale. Quello che viviamo non è apatia, è sgancio orbitale.
È come corpo collettivo che smette di reagire a certi comandi, che rifiuta la corsa cronometrata verso il nulla. Non stiamo diventando pigri, stiamo diventando altro.
E la storia — bastarda ma generosa — ce lo insegna: ogni volta che un ciclo si chiude, l’umanità ci mette dentro qualcosa di inspiegabilmente potente, coraggioso e creativo. E quella fame quieta di autorealizzazione che ci fa resistere anche quando non sappiamo bene perché.
Siamo solo in transizione, stiamo costruendo forme nuove, ritmi nuovi, lavori che abbiano senso e non solo buste paga.
So che non è facile navigare questa transizione da soli, ma lo scopo di questa newsletter e del lavoro che io e miei colleghi facciamo, è soprattutto quello di guidare le persone in transizione, verso un’evoluzione consapevole lontana da slogan motivazionali, ma con visione, strumenti e percorsi concreti.
Nel frattempo, navigare a vista, con gli occhi aperti e il cuore curioso. E un entusiasmo testardo che, a volte, è già rivoluzione.
Stiamo sempre svegli, curiosi, inafferrabili.
A presto!
Davide
P.S. Ti invito a condividere questa articolo con chi pensi possa trarne valore.
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Dott. Davide Etzi
Psicologo, Psicoeconomista, Executive Coach e Terapeuta sistemico-strategico [www.davideetzi.it]
Consulente in assessment e psicodiagnostica per le Persone, i Gruppi e le Organizzazioni [www.humanev.com]